Postfazione Manuale Hudolin

Postfazione (anno 2015) Fabio Folgheraiter (Università Cattolica di Milano e Centro Studi Erickson di Trento)

Trent’anni di Hudolin La sua idea ci salverà? Postfazione Manuale Hudolin

  • Più gli anni passano da quando Hudolin è arrivato in Italia, più ci si accorge che un conto è aver ricevuto da lui l’insegnamento di un «metodo» alcologico, altro è aver ricevuto un’eredità culturale.
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    • Trent’anni non sono pochi. Mentre in tutto questo tempo un qualsiasi metodo rischia, anche se ben curato con la necessaria manutenzione, di arrugginirsi e perdere slancio, il suo spirito o la sua armonia interiore, se il metodo è di quelli buoni, tende a rafforzarsi e raffinarsi, come fanno certi violini costruiti dagli artigiani.
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    • Non solo, a un certo punto, come succede a certe farfalle, esce fuori dal suo bozzolo e prende il volo.
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Consapevole di quanto sarebbe stato rischioso chiudersi nella rigidità di un’ortodossia, Vladimir Hudolin, durante gli anni del suo insegnamento diretto, non perdeva occasione per suggerire di aggiornare i programmi, di aprirsi alle ricerche e ai dati nuovi, di valorizzare i momenti riflessivi come la formazione e la supervisione, così che il «metodo» non si sclerotizzasse nel proprio involucro.

Tutto ciò è stato fatto, in Italia, in modo encomiabile, ma gli anni che trascorrono ovviamente, come in tutti gli organismi, appesantiscono gli slanci originari e spargono scorie. Se ci chiediamo che cosa ne è del Metodo Hudolin dopo trent’anni dobbiamo, con sincerità, riconoscere che esso era più vitale e flessibile agli inizi, quando il genio del fondatore era ancora con noi a darci delle dritte.

Differente è invece il destino dell’idea fondamentale o per meglio dire dell’anima di quel Metodo. Hudolin ha costruito il suo procedimento su radici così solide e centrate che possiamo dire che egli ci ha consegnato in eredità, più che uno strumento operativo, una cultura, un modo di intendere e di vivere la relazione di aiuto.

Quelle radici, oggi, trent’anni dopo, sono ancora più forti e si sono diffuse in tanti terreni, anche i più impervi, dando vita a germogli in ogni dove.

Intuizioni rivoluzionarie furono quelle che Hudolin incominciò a trasmetterci trent’anni fa. Intuizioni «coperte» come appunto sono le vere radici, invisibili e allora pure persino confuse tra i tanti infestanti presenti nel terreno. Intuizioni talmente vitali che esse si sono rafforzate e chiarificate e pure — ciò che più conta — hanno fatto strada fuori dall’alcologia, nel grande mare del welfare italiano.

Trent’anni fa Hudolin si è presentato offrendoci un pacchetto di operazioni (in primo luogo, il CAT) che poté sembrare allora, ai più, compresi tanti di noi, una delle tante tecniche cliniche che si affacciavano vorticosamente sulla scena sociosanitaria italiana.

Più che una condizione per stare con le famiglie, il CAT sembrò agli operatori professionisti una nuova, delicata e perciò efficace, forma di manipolazione clinica.

Forse fu per questa sorta di sottile travisamento che quel metodo fu entusiasticamente accettato.

Gli anticorpi del sistema corrente — quello di allora e quello di oggi — non lo intercettarono come «estraneo». Lo interpretarono come omogeneo al paradigma clinico imperante e perciò lo fecero «passare».

In realtà, l’idea guida di Hudolin era rivoluzionaria. Culturalmente, era in grado potenzialmente di ribaltare l’anima, dunque l’assetto organizzativo, del «sistema socio-sanitario» fino ad allora conosciuto.

Una cultura, quella, per giunta un tantino ipocrita: celebrava e romanticizzava a parole i principi radicali dell’OMS in tema di educazione sanitaria e di prevenzione per poi andare a fare, sempre e comunque, l’esatto contrario.

Dietro la sua maschera sorniona e apparentemente bonaria, Hudolin fu un silenzioso e però potentissimo martello demolitore. Come una goccia continua scava la roccia, il pensiero di Hudolin ha scavato e svuotato di senso il nostro orgoglioso e per tanti aspetti poco sensato modo di operare.

Mentre il «sistema» inconsciamente pretendeva che la salute venisse dalla capacità dei medici e degli operatori sanitari di fare le cose giuste in virtù delle conoscenze scientifiche che solo loro potevano conoscere, Hudolin, seguendo Illich e altri pensatori di quel calibro, disse invece, con piena cognizione di causa, che la salute viene dalla serietà e dal senso di responsabilità delle persone interessate a essa.

Mentre il «sistema» inconsciamente pretendeva che gli utenti e i familiari stessero buoni, ai margini, mettendosi in fila per aspettare il turno delle prestazioni specialistiche che sarebbero state, prima o poi, erogate, Hudolin predicò invece la piena parità di voce tra tutti gli interessati a quel bene.

Tutti in cerchio attorno a un tavolo, o addirittura senza nessun tavolo in mezzo! Tutti gli interessati, professionisti e cittadini, erano invitati a costruire, qui e ora, le decisioni e i reciproci impegni per fare meglio le cose possibili. Hudolin non conosceva probabilmente don Milani ma diceva cose molto simili al grande prete di Barbiana.

Ancora: mentre il sistema dei servizi inconsciamente pretendeva che le istituzioni pubbliche fossero il «vertice» di tutte le azioni per la salute (un bene perciò calato dall’alto), Hudolin sosteneva che nessun vertice esisteva, o meglio, che il vertice fosse distribuito in ogni persona pensante e motivata. L’idea era che ogni politica e ogni progetto sull’esistenza altrui si potesse realizzare solo in un dialogo aperto tra il «basso» e «l’alto».

Questo, ad esempio, seppero fare trent’anni fa le persone che promossero il movimento alcologico. Gli operatori, gli utenti e i familiari s’intesero in Trentino con la Dirigente dell’Assessorato alle attività sociali di allora, e assieme costruirono le linee guida e le regole per un intervento fuori da ogni canone a quei tempi conosciuti.

Mentre il «sistema» pretendeva che le sofferenze e le fragilità delle persone fossero la materia prima del proprio funzionamento — come le bugne delle macchine sono la materia prima dei meccanici e dei carrozzieri — Hudolin ci spiegava invece che la sofferenza umana è la forza primordiale che alimenta ogni cambiamento e ogni progresso, la vera serietà dalla quale gli operatori professionali e i cittadini possono partire per imparare.

  • Tutti questi principi relazionali suonavano contrari all’impostazione consolidata nella testa della maggioranza dei medici, degli psicologi e degli assistenti sociali di allora. Memorabili sono ancora le discussioni in cui Hudolin ridicolizzava e scardinava le certezze «date per scontate» di tanti «specialisti» di ogni genere. Ci voleva sottile ironia e implacabile durezza di personalità per mettere in crisi il senso comune, cioè l’ovvio più autoevidente.
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    • Difficile era far intuire che, sebbene ogni organizzazione è fatta per produrre beni e servizi concreti, e sebbene i servizi sociali siano anch’essi a tutti gli effetti delle organizzazioni, essi non possono letteralmente produrre, quasi fossero delle fabbriche, il bene umano (la salute, la giustizia sociale, l’armonia, la felicità esistenziale, la pace, ecc.).

I principi di Hudolin erano controintuitivi (lo sono ancora oggi) e avrebbero dovuto suonare come sovversivi e pericolosi per la tenuta di tutto un sistema costruito al contrario.

Non suonarono come pericolosi, quei principi, semplicemente perché allora non furono ben compresi nella loro radicalità. Non ci si accorse fino in fondo dell’enorme potenziale scardinante delle idee hudoliniane, del loro potere di ridicolizzare le beate assurdità su cui tutto il caos organizzato del welfare di allora si reggeva.

Ben prima che i liberisti arrivassero a presumere di risanare le finanze pubbliche e di far crescere la qualità a colpi di concorrenza, Hudolin aveva visto l’insostenibilità dei sistemi moderni di cura e aveva indicato a tutti la strada alternativa da seguire.

Nel pieno dell’era delle vacche grasse, quando ancora il denaro scorreva, Hudolin ci mostrò come la salute non dipendesse dal denaro speso per i farmaci e per le terapie specialistiche. Elementi pur importanti, le risorse economiche, per una cura integra, ma non sufficienti.

Ben prima della «crisi» attuale, egli ci disse che il detto popolare «più spendi meno spendi» vale forse per tante altre cose, ma non per la salute e lo star bene. Il grande Maestro croato mostrò che, così come succede con le famiglie colpite da problemi alcolcorrelati, anche per i sistemi istituzionali una crisi è necessaria per comprendere verità più profonde e per poter cambiare.

Dopo trent’anni dall’avvio dei suoi programmi, in piena crisi e con le vacche magre che come spettri ci girano attorno, capiamo che Hudolin aveva ragione. Vediamo che il vecchio professore vedeva lontano.

Lo capiamo da un lato per la diffusione impressionante delle esperienze di oggi che esplicitamente si ispirano alla sua logica, per la facilità con cui i progetti «poveri» coerenti con il suo metodo attecchiscono.

Dall’altro, lo capiamo dal fallimento penoso delle esperienze nate da modelli opposti, non solo quelle di impianto statalista basate sui soldi bensì anche di quelle liberistiche basate sui mercati assistenziali, vale a dire sui voucher e sugli appalti.

L’impostazione di Hudolin non era né di destra né di sinistra. Non predicava che le famiglie si arrangiassero con cure «fai da te» o che fossero meri consumatori di prestazioni mercantili (come appunto i liberisti vorrebbero). Neppure predicava che le famiglie fossero infantilizzate con cure asfissianti e unilaterali, che i sistemi sociosanitari decidevano a freddo.

L’alternativa di allora era tra:

a) essere mollati al proprio destino cosicché solo i più forti e i più adattati alla lunga potessero stare sulla scena delle società globalizzate;

b) essere «presi in carico dalla culla alla bara» secondo il classico slogan di Titmuss.

Vladimir Hudolin contribuì a rompere tale dilemma andando giù secco, come fece Alessandro Magno a Gordio, con un colpo di spada.

Pragmatico qual era, non concettualizzò tutte queste diatribe di politica sociosanitaria, che in effetti sarebbero poi emerse in tutta la loro portata solo successivamente, ma le superò con l’esempio dei fatti.

In generale, egli non si limitò a teorizzare ciò che è «giusto» fare (cosa che comunque non è male). Non solo volle indicarci una strada. La percorse lui stesso assieme a noi. Aiutò migliaia di operatori e di famiglie a percorrere anch’essi il cammino di un lungo e complesso cambiamento socioculturale e «tecnico». Strada facendo ci fece toccare con mano che la strada di una piena relazione tra persone di buona volontà era davvero una strada maestra per le professioni sociosanitarie, niente a che vedere con l’uno o l’altro dei tanti sentierini fuorvianti che in quei decenni erano continuamente additati da clinici acuti ma centrati solo su loro stessi (autoreferenziali, come si dice), esperti che avrebbero voluto dire agli altri come vivere ma che senza accorgersene avevano smarrito la bussola.

La strada maestra indicata da Hudolin finalmente liberò le immense energie umane imprigionate nei meandri delle tante «soluzioni» insensate propinate dal volenteroso, quanto confuso, «ambaradan» del nostro welfare.

 Quella strada non è solo — oggi lo capiamo bene — un’ottima via terapeutica. I CAT non danno solo migliori risultati in termini di cambiamenti comportamentali nel controllo del bere. I CAT portano le persone (tutte le persone, compresi i servitori-insegnanti) a sviluppare la loro libertà di persone autentiche. Sviluppano l’umanità degli uomini entro una cornice di etica civica. Dai CAT le persone escono non solo sobrie ma, chi più chi meno, per quanto possibile, anche consapevoli di essere migliori persone e migliori cittadini.

A riprova di tutto questo, possiamo portare i risultati di quelle ricerche scientifiche condotte all’interno del movimento dei CAT italiani che dimostrano in maniera chiara come le persone con problemi alcolcorrelati (alcolisti, familiari e professionisti friendly) che hanno potuto stare per un certo tempo nei gruppi, ottengono punteggi più alti nei test che misurano il loro capitale sociale.

I membri a vario titolo di un CAT non solo beneficiano di quell’esperienza relazionale «guarendo» dall’alcolismo o recuperando competenze personali. Essi hanno pure un’occasione formidabile per diventare anche migliori cittadini, cioè persone più fiduciose negli altri e più aperte alle relazioni nella propria comunità di vita. I membri di un CAT imparano ad aprirsi agli altri e a cooperare. Sentono come una cosa sensata la possibilità di «poter fare» molto di più, per la qualità della vita condivisa, mettendosi assieme.

  • Stimolati dall’esempio di ciò che Hudolin ci aiutò a fare nell’area alcologica, con quel po’ di vento in poppa derivato dal fatto che tutto quel fare era infine coerente con il senso delle cose e quindi con la spinta d’entusiasmo derivante dal vederci capaci davvero di modificare le cose per il meglio in tanti gravi problemi umani, abbiamo visto crescere pian piano in Italia un numero importante di iniziative che nello spirito erano conformi all’insegnamento hudoliniano pur se in campi di esperienza molto diversi.
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  • Non sto a esemplificare qui perché tutto ciò a cui alludo è noto. Mi limito solo ad accennare alla proliferazione di gruppi di auto/mutuo aiuto in quasi tutti i campi delle fragilità familiari. Importante mi pare sottolineare che l’insieme di queste esperienze — dove i diretti interessati (utenti e familiari), gli operatori professionali (sociali e sanitari) e i cittadini motivati (volontari) hanno modo di incontrarsi alla pari per affrontare assieme problemi condivisi — si sono a tal punto estese, e si sono rivelate a tal punto portatrici di una radicale diversità, da poter essere considerate addirittura come un settore a sé all’interno del sistema complessivo delle cure.
  • Siamo abituati a distinguere a colpo d’occhio tre settori nel welfare: il Primo settore (i servizi della pubblica amministrazione); il Secondo settore (i servizi del mercato, a scopo di lucro) e il Terzo settore (i servizi dell’associazionismo non lucrativo).

           La fruttificazione dell’impegno di Hudolin ci porta ora a comprendere che non è abbastanza considerare i servizi basati sul metodo di Hudolin (le reti basate sulla mutualità) come meri esemplari di azione non lucrativa (cioè definirli di Terzo settore, in base al fatto pur importante dell’assenza di guadagno economico). C’è molto di più in quelle reti.

Nelle esperienze dei gruppi di auto/mutuo aiuto o delle associazioni ombrello che li rappresentano (le ACAT o le Associazioni AMA, ecc.), nei tavoli di lavoro realmente congiunti, nei movimenti sociali come «le parole ritrovate» o nelle formule organizzative in cui i servizi istituzionali (delle ASL o dei Comuni) trovano il modo di chiamare alla cogestione gli utenti e i familiari esperti (UFE e HOPE), in tutte queste evidenze dove la «relazione alla pari» tra differenti saperi e competenze, emerge un «quid» che rimane specifico e distintivo.

C’è un’enorme differenza tra le esperienze «di piena relazionalità» suggerite da Hudolin, laddove si presuppone che sono le famiglie e le persone sofferenti ad aiutare i servizi sociali a funzionare e non viceversa, rispetto a tutti gli interventi pur importanti in cui qualcuno di «superiore» e di «sano» si sente bravo a curare i poveretti.

Le stesse organizzazioni di Terzo settore come le «imprese sociali» e le «cooperative» e le «associazioni pro-sociali», espressioni senz’altro di una solidarietà sociale benemerita, possono tuttavia ancora incorporare questo non trascurabile vizio di prospettiva.

Confondere l’alta valenza di una reciprocità piena con il valore, pur importante, di un certo distacco dal denaro e dalla sete di guadagno, vuol dire non riuscire a separare il grano dal loglio. Ci si confonde mescolando assieme principi inconciliabili.

Se Hudolin non si arrabbiasse sentendoci evocare quello spirito maligno contro il quale combatté tutta la vita, potremmo dire meglio che è come mescolare del vino nella nostra ottima, cristallina, acqua trentina.

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